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Robert Frank

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Robert Louis Frank nacque a Zurigo nel 1924 da una benestante famiglia ebraica.

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Dinamico ed intraprendente fin da giovanissimo affronta gli anni della Seconda Guerra Mondiale e delle persecuzioni rimanendo al sicuro in Svizzera, nonostante la sua famiglia fosse stata privata della cittadinanza dal regime tedesco.

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Appena ventenne la sua strada gli appare già chiara: studia arte grafica in giro per il mondo e lavora come assistente fotografo.

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Ad appena 22 anni riesce ad allestire la sua prima mostra fotografica dal titolo “40 Fotos”; ottiene un discreto successo che gli servirà come fondamento per ottenere un posto nelle redazioni dei giornali di moda e proseguire la sua carriera da fotoreporter freelance.

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Il nuovo lavoro lo obbliga per convenienza a trasferirsi a New York dove richiederà ed otterrà la cittadinanza americana. Un cambiamento che accoglie con piacere in quanto si innamora rapidamente della vitalità imperfetta e caotica della metropoli e, più in generale, della visione ambiziosa ed intraprendente del popolo americani.

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Ancora giovane, nel ’50, Frank viene già esposto nelle gallerie e nelle esibizioni più importanti, in questo periodo le sue fotografie sono apprezzate soprattutto per la bellezza formale e per la maestria dell’esecuzione.

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Appena 5 anni dopo, ha un illuminazione: ispirato dai lavori dei colleghi Bill Brandt e Walker Evans decide di testimoniare le vite degli americani in una narrazione fotografica.

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In questa frenetica avventura di oltre due anni attraversa ben 48 stati, assistito dalla moglie e accompagnato dai due figli, Pablo ed Andrea.

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Sfortunatamente la sua disillusione nei confronti del popolo statunitense cresce sempre di più man mano che vive ed osserva il mondo fianco a fianco ai suoi concittadini e più di una volta si ritrova discriminato per via delle sue origini ebraiche.

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Quando finalmente l’opera è compiuta il fotografo presenta i suoi 83 scatti (scelti tra oltre 28.000 fotografie totali) all’amico scrittore e poeta Jack Karouac il quale si offre di scrivere l’intestazione dell’opera.

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“The Americans” è pronto ma viene duramente respinto dalla critica del tempo la quale non apprezza la marcata deviazione dai canoni formali e la vena neppur troppo sottile di biasimo che emerge dalle fotografie.

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L’insuccesso iniziale lo porta dunque alla decisione di abbandonare la fotografia. Frank decide così di dedicarsi al cinema, altra sua grande passione.

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Per quasi 20 anni la  cinepresa sostituirà, con timidi successi, la fotocamera. Contemporaneamente però “The Americans” inizia a ottenere il meritato riconoscimento anche grazie ai movimenti di rivendicazione sociale che scuotono gli anni ’60.

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Frank decide di tornare alla pellicola solo dopo la traumatica perdita di entrambi i figli. Andrea muore durante un tragico incidente aereo mentre, pochi mesi dopo, Pablo viene diagnosticato come schizofrenico (e morirà appena 20 anni dopo), siamo nel ’74.

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Nasce così la seconda raccolta: “The Lines of my Hand”, un’eclettica collezione di scatti autobiografici pesantemente modificati dall’autore stesso. Un’opera che riflette i sentimenti e le esperienze del fotografo, tra inedito e vecchie polaroid riprese dalle sue prime esposizioni.

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Ad oggi Robert Frank è uno degli esponenti più osannati ed importanti della fotografia americana soprattutto grazie a “The Americans”.

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Continua a fotografare e ad esporre, più per passione che per arte; la sua vita è cadenzata dai soventi spostamenti che lo muovono tra la sua tranquilla casa in Canada ed il suo appartamento nella caotica ma amata New York.

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Robert Frank: “The Americans”

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Spinto dai movimenti sociali e da una rinnovata capacità di critica ed autocritica “The Americans” era destinato a lasciare un’impronta indelebile nelle coscienze degli americani.

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Una biografia cupa e disordinata dell’identità di una nazione difficile da sondare, caratterizzata da forti contrasti, vitalità, ipocrisie ed una vera ossessione per i suoi stessi simboli.

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Frank vuole raccontarla nel modo più veritiero, disilluso e neutrale possibile: “un gioco della Verità” che si guarda attorno e congela nella pellicola ciò che tutti possono vedere per le strade delle città americane.

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Perché ciò fosse possibile era necessario ridurre al minimo il disturbo della fotocamera, che rischiava di interrompere il naturale scorrimento della vita dei personaggi di Frank.

Il fotografo dunque si pone a distanza, cerca di essere schivo, di passare inosservato, di vedere senza essere visto.

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Com’è evidente nei suoi scatti i soggetti sono raramente consapevoli d’essere fotografati, molte immagini appaiono sfocate e male inquadrate come se fossero state rubate inconsapevolmente e frettolosamente.

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Questo rifiuto della composizione classica e dei canoni formali è anche un chiaro eco della “caoticità” e del disordine naturale che pervadono la vita delle persone il cui senso è assolutamente relativo e contestuale.

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Frank non ha soggetti umani preferenziali, ricchi o poveri, bianchi o neri, l’importante è che ci sia qualcosa che catturi la sua attenzione, preferibilmente un momento di debolezza in cui la maschera sociale che le persone vestono normalmente cade.

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In questi momenti “privilegiati” di spontaneità emerge, in tutto il suo splendore, la banalità stessa del sogno americano i cui elementi, gli attori, sono ritagliati fuori dalla sua ambiziosa visione e riconsegnati alla mondanità.

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Questo aspetto risalta particolarmente quando Frank si rivolge alla coscienza tangibile del patriottismo culturale statunitense: bandiere e parate sono elementi di punta del culto popolare americano; ma la loro grandiosità e tanto effimera quanto il contesto in cui vengono inseriti. Basta un semplice cambio di prospettiva, l’accostamento giusto di elementi e l’illusione crolla.

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La scelta delle tonalità e dei colori non tradisce la prospettiva dei suoi scatti: gli scuri sono molto intensi ed anche le tonalità di grigi sono adoperate con grande enfasi mentre i bianchi sono “sporchi” e ricchi d’impurità.

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Neppure il colore insomma vuole spezzare la coerenza della visione amorale e neutrale del fotografo.

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Frank dipinse gli americani come nessun altro prima aveva mai osato fare: umani legati ai loro riti, alle loro credenze, alle loro abitudini, accomunati ad ogni altro uomo sulla terra dallo stesso senso di smarrimento e dalla stessa inquietudine esistenziale.

Eppure unici nel loro genere proprio in virtù delle costruzioni culturali che proprio il fotografo svuota di senso.

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Insomma un’interpretazione spogliata da ogni pretesa esplicativa e da ogni retorica che proprio in virtù della sua sincerità non poteva che ferire profondamente il celebre orgoglio di questo popolo.

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Una visione che porta con se un retrogusto amaro, rintracciabile nella stessa delusione che provò Frank quando lui per primo realizzò quanto gli ideali democratici ed egualitari del Nuovo Continente fossero fragili se paragonati all’atavica e ben nota indole avida e consumistica degli uomini.

 

Curiosità:

  • Tra i film girati dal fotografo c’è anche “Cocksucker Blues” (lett. il “Blues del Succhiac*zzi”) : un documentario sulla vita dei Rolling Stones tra tournée, orge, droga e il deprimente volto della fama. Il film fu censurato dallo stesso gruppo che temeva le ripercussioni della sua divulgazione.

  • Frank fu anche rifiutato, a causa delle sue divergenze stilistiche, dall’Agenzia Magnum; il più rinomato club di fotografi del tempo.

Libri di fotografia consigliati

The Americans, Robert Frank and Jack Kerouac

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Un libro che ha fatto la storia della fotografia del Novecento, arricchito anche dalla preziosissima introduzione di Jack Kerouac. Assolutamente da non perdere

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